Il pensiero di un tifoso:”Faremo presto,aveva detto…”
A due giorni dal raduno al Filadelfia, il nuovo Toro, chiamiamolo così, di Cairo,
Vagnati e Giampaolo, è un cantiere aperto, ma di quelli che persino gli umarell più arditi, cappello d’ordinanza in testa e mani dietro la schiena, faticano a voler osservare.
“Faremo le cose con rapidità”, prometteva solenne il piccolo Napoleone targato Mandrogne, nemmeno due settimane fa.
Si, certo, come no.
Il nuovo tecnico ha già capito con chi ha a che fare, e non sono passati nemmeno dieci giorni da quando ha apposto la firma sul contratto.
Un rinnovo di un trentaquattrenne, l’acquisto di un reietto (anche se dal passato discretamente glorioso) dal Milan e la rosa ancora zeppa di spine.
Fine dei giochi, si resta in attesa di qualche squillo di vita.
Chi ringraziare per questi patimenti già lo si sa.
L’Alessandrino è un calcolatore puro, un arido privo di passioni ed ardimento, nato, si sarebbe detto in altri tempi, con la penna dietro l’occhio ed il calamaio al posto del cuore.
Cairo attende, con la completa ottusa inerzia dei ragni che aspettano la preda nella tela, e che piuttosto di muoversi si arrischiano di morire di fame.
E chi attende?
Attende di strappare il si di un ex ragazzo dal talento cristallino ma dai muscoli costruiti di altrettanto delicato materiale, oramai da due anni quasi completamente sparito dal radar di un certo tipo di calcio.
Lo tenta come il serpente dell’Eden, fidando sulla prospettiva più che concreta che oltrechè prenderlo a zero centesimi (Biglia è attualmente svincolato), non ci sia la fila per un trentaquattrenne sul viale del tramonto a cui è rimasto solo più il nome.
A lui Cairo fida di affidare gli onori ma soprattutto gli oneri di un ruolo che oramai da un decennio abbonante segna la voce “assente” nel casellario della mediana granata.
Per la carità, nulla che non sapessimo: per Cairo fare mercato è come per Antonio Comi andare a Borgo D’Ale la terza domenica del mese in cerca di cianfrusaglie e paccottiglie.
Se vivesse a Napoli, anziché il caffè istituirebbero per lui il rituale del “giocatore sospeso”, già pagato da qualche gentile e premuroso avventore, e pronto da ritirare al bancone.
Il solito futuro grigio ed inarticolato si palesa davanti a noi con tutte la sue enormi incognite, le stesse che oramai abbiamo imparato a conoscere a menadito.
Così come al medesimo tempo abbiamo imparato a distinguere , oltre alle solite promesse da marinaio smemorato, i belati di pecora di chi ancora segue il bucaniere, anzi per meglio dire il mozzo, di Masio, come un pulcino seguirebbe una chioccia.
Dopo l’ondata di speranza violenta ma effimera che per qualche vago istante aveva dato ad alcuni l’impressione che Urbano il breve potesse cambiare aria, eccoci di nuovo sprofondati nel nostro solito tempo sterile e stagnante al quale ormai non siamo capaci di immaginare una fine.
Dopo i bluff, le pantomime, le vane illusioni , si fa largo nell’animo di tanti quella finta speranza che le cose possano cambiare, anzi che Cairo possa cambiare: come se quindici anni non fossero bastati per distinguere un papa da un impostore.
Sempre in questi, non si sa come, rinasce sufficiente tranquillità perché si riesca a mentire a se stessi quanto basta, il tutto per ritardare la certezza aggrappandosi alla speranza.
Parte del nostro tifo oramai inerte e collassato su se stesso, acquisisce una sorta di docile mansuetudine, e rinasce puntuale ed immancabile nei cuori quella tremenda paura delle colonne d’Ercole e dell’ignoto che il dopo Cairo rappresenterebbe.
Non si contano più le frasi stereotipate, alcune delle quali riporto per esclusivo dovere di cronaca.
Da “lasciamoli lavorare”, a “questa è la nostra dimensione” passando per l’evergreen “compratelo voi il Toro!” è tutto un fiorire di amenità che fanno sanguinare il cuore e gli occhi.
A queste si aggiunge spesso il lapidario: “voi non siete VERI tifosi del Toro!”, tesi ultimamente sostenuta con forza anche da personaggi di dubbia moralità che con tv e carta stampata cercano di sbarcare il lunario.
Il Toro, per questi soggetti, sarebbe in queste mediocri condizioni proprio perché i tifosi non sono tali, non sono autentici, non sono VERI.
Il più classico degli stravolgimenti della realtà: il ricercato e deliberato scambio di effetto con la causa, il tutto per portare acqua marcia al proprio altrettanto olezzo so mulino.
Come il cane che viene bastonato perché morde e non che morde proprio perché bastonato, i tifosi del Toro vengono non più descritti come vittime ma carnefici, ed in molti accettano la cosa con rassegnata presa di coscienza.
Aspettando gli acquisti promessi da Cairo come aspettassimo Godot, in questa pièce da quattro spicci già in parecchi hanno facilmente individuato in loro stessi il colpevole: per lo meno non usciranno dal teatro delusi.